L’invisibile poesia delle scintille
Urla, lacrime, nervosismo, rabbia. Misti a incredulità, gioia, altre lacrime, altre urla, alla voglia di spiccare il volo. E’ questo il bilancio delle serate emotivamente più coinvolgenti di un tifoso. Kiev, Barcellona, Manchester, Milano, Londra, ma anche Cagliari, Cesena, Roma, Udine. Tutti luoghi in cui oltre a gustare il sapore di calcio si è respirata aria di anima. Un’anima non intesa come una semplice manifestazione di vita, di presenza, ma come quella componente astratta del pensiero che consideriamo come coscienza di se stessi. Già, non fa la differenza se ti trovi in una grande capitale o in provincia, la coscienza di te stesso puoi averla o acquisirla tanto nell’uno quanto nell’altro posto.
IMPRESA, SI O NO? – In ognuna delle città menzionate sopra l’Inter ha lasciato un pezzettino di sé. Perché laddove riesci a compiere anche solo la parvenza di un’impresa qualcosa rimane, a chiunque ad essa assista. E si badi bene, l’impresa non significa ottenere una vittoria. Vincere a Barcellona, per esempio, sarebbe stato un’evento storico più unico che raro, e – siamo sicuri – sarebbe stato ricordato comunque nel tempo come è stato ricordato quell’ 1-0 per i blaugrana. Ma probabilmente se l’Inter avesse dominato il match oggi lo ricorderemmo con meno enfasi, con meno ardore, e gli occhi ci brillerebbero di meno al solo pensiero. Perché il senso dell’impresa non sta nel risultato, ma in ciò che arriva alla gente. Agli interisti, quella sera, è arrivato il messaggio che soffrendo insieme come non mai quegli undici eroi (in realtà diventanti dieci dopo mezz’ora) potevano disinnescare anche le bombe. D’altra parte ci affascina di più chi disattiva un ordigno combattendoci fino all’ultimo istante faccia a faccia o chi lo porta a chilometri di distanza per farlo esplodere senza provocare danni?! Crediamo i primi. Ora, posto che non sulla Terra non c’è un solo interista che non abbia festeggiato in quella tiepida notte di primavera, è bene ricordare che quasi tutti lo abbiamo fatto inconsciamente, come per sfogo, per rabbia, anche per rivincita nei confronti di chi ci dava per spacciati. Ma ciò di cui lì per lì non ci siamo accorti è che ogni goccia di sudore dei magnifici undici, ogni lacrima di Cambiasso o di Zanetti portava il DNA di una scintilla.
BOOOM – Una scintilla che, in quel caso, si è inizialmente chiamata “Kiev”. Tutti abbiamo ricordi confusi di quella magica serata di Champions, quel 4 novembre che mai uscirà dal circolo dei ricordi. La scintilla spesso scatta dalla necessità: provare a far qualcosa per vivere, più che per sopravvivere. Con la Dinamo in vantaggio nonostante gli attacchi ripetuti e i miracoli del portiere russo il pensiero è uno solo: perdere significa porre fine a un sogno, vincere vorrebbe dire alimentare una fiammella. Per troppo tempo il sogno era finito sù in soffitta, e allora bisognava fare qualcosa di più. 737 giorni fa ci si è aggrappati a tutti, perfino a un Thiago Motta a mezzo servizio, a uno Sneijder stirato, a un Balotelli quasi sempre svogliato, addirittura a Muntari negli ultimi 10 minuti. La costante speranza in quei casi è che possa succedere qualcosa: qualsiasi cosa, grazie a un giocatore qualunque, basta che funzioni e che succeda. Perché se succede, a quel punto cambia tutto.
IL PESO DELLA FIAMMA – Fabio Caressa, al termine della gara, fu profetico: “Questa è una di quelle gare che possono cambiare il corso di una stagione”. E l’aveva capito anche La Gazzetta dello Sport, che il giorno dopo pubblicò a caratteri cubitali un “ESPLODE L’INTER” da mettere i brividi. E noi che magari, quella sera, avevamo solo pensato a imprecare, a esultare, a saltare. Tutto bellissimo, per carità, ma col senno di poi proviamo a riflettere: quanta coscienza di sé c’era prima di quel risultato? E quanta dopo’ Un’infinità di più. E’ bastato Diego Milito, quando la palla non voleva entrare e nessuno più voleva crederci, a darci un’idea della misura in cui le cose potevano cambiare. Sul secondo gol sono bastati Muntari e il suo sinistro rabbioso pieno di delusione, poi ancora il Principe che ci ha creduto quando la sfera stava morendo a bordo campo, e Sneijder che ha fatto il resto. A volte è sufficiente che la palla varchi una semplice linea bianca di gesso affinché la prospettiva cambi. Perché il messaggio di quei gol a 5 minuti dalla fine non era un triste “andiamo a vincere la partita”, ma un ambizioso “andiamo a prenderci la Coppa”. Basta poco per sciogliere un gelo come quello di Kiev e trasformarlo in un insieme di calde sensazioni.
SEGNALI – Kant avrebbe definito “chiave di volta” quella vittoria di due anni fa. E’ stata insieme causa e conseguenza, in un rapporto che è difficile da stabilire, perché se da un lato ha simboleggiato una crescita dell’ambiente, della squadra tutta e dei tifosi, dall’altro ha posto le basi per far sì che la crescita entrasse seriamente nel vivo. Gli interisti sono legati a quella partita, ma dovrebbero essere legati al senso e alla speranza che una gara così lascia in eredità. E cioè che l’attimo fuggente può arrivare in un momento qualsiasi e grazie a chiunque. Perché in fondo c’è sempre tempo per scrivere poesie, ma bisogna fare in modo che qualcosa ci dica che siamo in grado di usare penna e calamaio, perché niente nasce da nulla. Accorgersi dei segnali, farne tesoro per avere coscienza di sé: è tutto ciò di cui una una potenza ha bisogno per diventare atto. Non sappiamo ancora a che livello, ma l’Inter di oggi è una potenza, e se è tale può diventare sicuramente atto. Ci vorrebbe un’altra Kiev, un altro po’ di gelo da trasformare in calore, un evento che lasci lì, morto sul freddo campo di battaglia, ciò che l’Inter è in questo momento e che non dev’essere più nel futuro. L’uomo, l’Inter, il musicista, l’operaio, il medico, hanno tutti bisogno di credere in se stessi per vivere. Qualcuno diceva: “Noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana, e la razza umana è piena di passione“. A volte non siamo in grado di accorgerci di questa verità. Forse a questo servono le scintille.