Zanetti: “Mi voleva il Real. E sul futuro…”
Il 12 novembre La Gazzetta dello Sport premierà a Milano Javier Zanetti, vincitore del premio “Giacinto Facchetti, il bello del calcio“. Nell’intervista a Sportweek con Gianlfelice Facchetti, figlio dell’indimenticato ex terzino nerazzurro, il capitano ha parlato dell’associazione umanitaria che ha fondato anni fa con la moglie Paula, la “Fundacion Pupi”. Ecco le sue parole: “Era un desiderio che ci portavamo indietro da tempo io e Paula. Quando nel 2001 l’economia argentina è crollata, ci siamo resi conto che bisognava fare qualcosa di concreto. Vedevamo condizioni di povertà estrema proprio sotto i nostri occhi e ci sentivamo impotenti. La cosa più urgente da fare era dare loro un’alternativa a una quotidianità infinita. Alla Fondazione ci prendevamo cura del loro tempo libero: volley, basket, musica, nuoto e calcio. I bambini all’inizio erano 39, ora sono più di mille. Chi l’avrebbe immaginato dieci anni fa?“. Ecco come opera in Argentina la fondazione: “Andiamo nelle favelas e con l’aiuto di assistenti sociali cerchiamo di seguire i casi con un rischio più alto. Bambini con genitori in carcere per droga, bambini che a cinque anni sono costretti a spacciare“.
Quindi Zanetti racconta la sua famiglia e l’incontro con sua moglie: “Eravamo giovanissimi, lei 14 anni e io 19. Lei giocava a basket, io ero al mio primo anno da professionista nel Talleres. Se mi ha seguito subito a Milano? No, è restata tre anni in Argentna a finire gli studi. Faceva avanti e indietro fino al 1999, quando ci sposammo. Mia mamma faceva le pulizie in casa di altre persone, mio padre era un muratore. Partivano alle 6 del mattino e li rivedevo la sera. Mio padre un giorno mi chiese ‘Ma vuoi fare davvero il calciatore? Vai a fare un provino allora’. Mi ha fatto capire cosa volesse dire fare sacrifici per mangiare“.
I ricordi più importanti del capitano quali sono? “Quando vincemmo la coppa Italia contro il Palermo e mia mamma mi mandò un messaggio sul telefono. La festa a Milano finì tardi, pensai che l’avrei chiamata l’indomani, ma non ne ebbi più la possibilità perché si addormentò nel sonno“. E sull’inizio di carriera: “All’Indipendiente mi scartarono perché ero troppo piccolo. Fu una delusione dura perché era la mia squadra del cuore. Poi papà e mio fratello Sergio mi incoraggiarono affinché resistessi. Arrivai al Banfield, andando presto in prima squadra, salendo dalla B alla A. Poi fu la volta della nazionale e dell’Inter, la squadra della mia vita“.
Ma come è nato il trasferimento in nerazzurro? Ecco le parole del capitano: “Facemmo un torneo a Mar del Plata, c’erano Suarez e Mazzola con osservatori di altre squadre. Passarella mi chiamò in disparte: ‘Pare che ti abbia comprato l’Inter’. Non riuscivo a crederci. Andai in macchina a San Siro e ricordo quanta soggezione mettesse visto da fuori. Non mi immaginavo in mezzo al campo. Poi alla prima di campionato quando uscii dal sottopassaggio capii che il mio sogno si stava realizzando“.
Quindi Zanetti rivela qualche retroscena di mercato: “Mi voleva il Real Madrid, quando all’Inter arrivò Cuper. Lui mi dice: ‘Pare che tu voglia andar via’. Parlai subito con il presidente Moratti perché volevo restare. Avevo il pensiero fisso di vincere con l’Inter, andarmene non sarebbe stato da me. Da lì in poi con Cuper ritrovammo un’anima e mettemmo una base per i successi futuri“. La gioia più grande? “La vittoria in Champions. La inseguivo da troppo tempo, prima della partita capii che difficilmente mi sarebbe potuta capitare un’altra partita così. Ricordo che quando l’arbitro segnalò due minuti di recupero già piangevo, guardavo Samuel e non riuscivo a trattenere le lacrime. La sconfitta più dura invece è stata la semifinale di Champions col Milan. Uscimmo con due pari, mai visto San Siro così, una cosa incredibile“.
Infine una battuta sui compagni di squadra a cui si è più affezionato: “Zamorano e Cordoba, sono quelli con cui ho costruito un rapporto più intenso. Ivan meritava di continuare a fare parte della famiglia Inter. E’ disponibile e generoso come pochi, l’uomo giusto al posto giusto. Sono felicissimo del suo ruolo“. E sul suo futuro: “Non mi ci vedo come allenatore. Mi piacerebbe fare il dirigente e stare vicino alla squadra per trasmettere l’amore per questi colori che ancora porto come alla prima col Vicenza. Una società nei ruoli cruciali dovrebbe avere persone che rappresentino la sua storia, figure in grado di trasmettere attaccamento alla maglia“. Immenso Javier.