Samuel: “Quando prendevo gol diventavo matto. Una volta con Cassano in allenamento…”
Seconda parte della lunga intervista concessa da Walter Samuel a La Gazzetta dello SportNella seconda parte della lunga intervista concessa da Walter Samuel a La Gazzetta dello Sport si è parlato del suo passato da calciatore, di River-Boca e di tantissimi calciatori ed allenatori con cui l’argentino ha potuto lavorare. Ecco le sue parole.
VERO NOME – “Walter Samuel, nato il 23 marzo 1978. In realtà: Walter Lujàn, nato il 23 gennaio. Da Laborde, provincia di Cordoba, trasferimento a Firmat, con ritardo nella trascrizione della data di nascita: ma il compleanno lo festeggio a gennaio da quando sono bambino. Lujàn si chiamava il mio padre biologico, che ci abbandonò quando ero molto piccolo. Magari ho sbagliato, ma non l’ho mai voluto conoscere: non mi avrebbe dato gioia e dovevo rispetto a Oscar Samuel, il compagno di mia madre di cui ho voluto portare il cognome. L’unica curiosità che avrei, sarebbe scoprire che faccia ha, ma da lontano”.
CARATTERE INFLUENZATO DALL’INFANZIA – “Guardi che io sono stato Il Muto solo per voi giornalisti: non avrei mai potuto essere il cebador, quello che preparava il mate per tutti. Per noi argentini, il massimo simbolo di condivisione”.
‘IL MURO’ – “Se mi piaceva? Era esagerato, com’ero io a inizio carriera quando prendevo gol: uscivo dalla partita. Però l’odio per la palla nella tua porta esiste, chieda a Burdisso, a Materazzi, a Cordoba: diventiamo matti ancora oggi, se succede”.
‘FALLO ALLA SAMUEL’ – “Quello ve lo siete inventato voi negli ultimi anni: io ho sempre “marcato il territorio”, verso la fine della carriera forse non avevo più la stessa rapidità e magari arrivavo lungo… Però non sono mai entrato per fare solo male”.
DIFESA NEL CALCIO DI OGGI – “Si difende in modo diverso. Spalletti, Sarri, Giampaolo: in area solo zona, si guarda prima la palla. Io avevo bisogno di toccare l’uomo, ma a Coverciano insegnano l’apertura ad ogni soluzione: quella dipende anche dagli uomini che hai”.
ALDAIR O LUCIO – “I primi mesi con Lucio furono duri: non giocava di reparto, ma poi ci siamo capiti ed è nata l’intesa. Di Alda ricordo che a 37 anni, a fine allenamento, si fermava a calciare per migliorare la tecnica. In una cosa erano simili: se la partita scottava, quei due non la sbagliavano mai”.
STADIO PIU’ EMOZIONANTE – “Bombonera, il mio primo Boca-River. Mi stavo scaldando per entrare dalla panchina e Salas sbaglia un rigore. Tutti mi dicevano che la Bombonera trema, quel giorno ho capito: sembrava
esattamente quello, una scossa di terremoto”.
RIVER-BOCA – “Comunque andrà, sarà una partita macchiata. Ci guardava tutto il mondo, ma in Argentina siamo così, basta ripensare alla legalizzazione dell’aborto, la scorsa estate: che sia sociale, politica, sportiva, qualunque questione diventa un motivo per essere rivali in modo estremo. E oggi gli amici mi telefonano, hanno paura di mandare i figli allo stadio. Qualunque stadio”.
Riquelme, Tevez, Batistuta, Totti, Zidane, Ronaldo, Beckham, Figo, Messi, Ibrahimovic, Eto’o, Milito.
“Non mi chieda il più forte, non so fare classifiche e semmai ho vinto io: è stato un privilegio poter giocare centinaia di partite dicendomi “Se non prendiamo gol, si vince: ci pensa uno di loro”. Ed è stato un fastidio vedere gente infinitamente meno forte di loro non avere la loro stessa umiltà”.
CALCIATORE PIU’ IMMARCABILE – “Uno che non ha citato: Cassano. Partitella, lo chiudo sulla linea di fondo, mi dico “Ecco, adesso non ha spazio per muoversi da nessuna parte”. Con un tocco, uno solo, lui si gira e va via, da dove non l’ho mai capito: nello spogliatoio mi massacrò, gli altri ridevano, io avrei spaccato tutto”.
Carlos Bianchi, Bielsa, Capello, Mancini, Mourinho, Maradona. Cosa le hanno insegnato?
“Diego la passione nel motivare. Bielsa a correggermi in dettagli tecnici che prima non guardavo neanche. Bianchi e Mourinho come si gestisce un gruppo. Capello con un solo esempio (“Guarda che così Inzaghi te la ruba e neanche ti accorgi”) mi ha fatto capire l’importanza di giocare la palla velocemente e mi ha lasciato un motto, dopo un brutto litigio con Panucci: squadra nervosa, squadra vittoriosa. Il Mancio è quello con cui ho discusso di più: allora aveva ancora reazioni da calciatore, e una volta gliel’ho proprio detto”.
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