EDITORIALE – Aria vecchia, botta nuova
di Gianluigi Valente
18 febbraio 1995. A Milano è un freddo pomeriggio d’inverno, c’è l’allerta neve, ma tira un vento nuovo nella zone de ‘La Pinetina‘. Mentre l’Inter prepara la partita casalinga col Brescia, infatti, arriva la notizia del passaggio di consegne ai vertici della proprietà: la presidenza del club ritorna ancora nelle mani di un Moratti, stavolta Massimo, il figlio dell’indimenticato Angelo. Tutti i romantici sono pronti a scommettere che ora con lui l’Inter diventerà Grande come quella degli anni ’60, ma pochi sanno che ci vorrà qualche anno per vedere i nerazzurri alzare coppe e vincere trofei con costanza.
18 febbraio 2003. L’Inter affronta il Barcellona al ‘Camp Nou‘ in una gara del girone di Champions, in cui la squadra di Cuper è capolista insieme ai catalani. Dopo la delusione dell’anno precedente targata ‘5 maggio’ e il secondo posto momentaneo alle spalle della Juventus, si è pronti per il grande salto. La rincorsa è pronta a partire proprio in terra spagnola, ma il balzo è nel vuoto: 0-3 e tutti a casa. L’Inter non è ancora grande e si vede, ma nulla è perduto e, in fondo, ci si sta abituando alle vertigini.
18 febbraio 2013. E’ sempre un freddo pomeriggio d’inverno a Milano, ma non tira nessun vento nuovo. Anzi, regna sovrana la paura: domenica prossima è in programma un derby thriller e gli spettri, oltre a prendere le candide sembianze della neve prevista per il giorno della gara, sono impersonificati da quel Mario Balotelli, che oggi entusiasma l’altra parte di Milano, e da un terzo posto che sembra scivolare via come una pallina su un piano inclinato. Ieri l’Inter ha perso ancora, ma ha perso male, troppo male, nel modo in cui nemmeno il più pessimista dei tifosi si sarebbe aspettato. Moratti, nel frattempo, ha reso Grande la sua creatura, è salito sul tetto del mondo, ha battuto i più forti, coronato il sogno di entrare nella storia del club. Da un po’, però, è tempo di ricominciare a sognare, e per questo, quando assiste a sconfitte simili, si arrabbia.
PUGNI – Un pugile suonato, di quelli incapaci di reagire ai colpi di un avversario sempre tonico e brillante; un pugile poco concentrato, con la testa altrove, ma soprattutto senza gambe, spezzate da due battaglie in pochi giorni; un pugile all’angolo, con le corde che premono dietro la schiena, la bocca aperta e il desiderio che finisca al più presto. Insomma un pugile, che quando non le dà, le prende: non male come metafora. Ci appare superfluo giudicare in termini tecnici la non-prestazione di ieri, e onestamente anche scrivere qualcosa di lucido e sensato dopo così poco tempo non è facile. Ma visto che un tifoso, prima di avere senso critico, di solito ha sempre una buona memoria, ci sembra onesto chiamare in causa il passato, quello più brutto, di cui andiamo meno orgogliosi. E’ un monito.
CALCI – Non fa male la sconfitta in sé: fa male notare che, se a Siena erano mancate le idee, ieri non si è vista nemmeno l’anima. Non ci sorprendiamo della maiuscola prestazione di Pizarro&co, ma ci stropicciamo gli occhi per non credere che otto degli undici giocatori scesi in campo ieri sono gli stessi dello ‘Juventus Stadium‘; ci schiaffeggiamo le guance perché Stramaccioni ha perso per strada il mantello e la spada del condottiero invincibile e spavaldo, e subito è pronto a prendersi tutte le colpe, abbassando lo sguardo a ogni domanda in sala stampa. L’Inter di ieri, e non ce ne voglia nessuno, probabilmente avrebbe perso anche con una compagine di categoria inferiore. Un po’ come la squadra per la quale facevamo il tifo anche negli ultimi anni dello scorso millennio e nei primi del nuovo: una palla da rugby, sballottata da una parte all’altra del rettangolo verde, con rimbalzi assurdi, presa a calci violentemente, sempre schiava e mai padrona. Un’altra buona metafora.
INGREDIENTI – Molti sostengono che l’Inter abbia abbandonato quella mentalità perdente il giorno dell’insediamento di Roberto Mancini sulla sua panchina. La verità, secondo noi, è che un’ora X non c’è mai stata: non può esistere un momento preciso in cui le cose cambiano, perché sono la quotidianità e le contingenze che modificano le realtà. Il lavoro fatto ora per ora, l’attenzione al dettaglio, le prime vittorie, il gusto del trionfo, l’adrenalina che sale, la voglia di superare l’ostacolo, la competenza: tutti ingredienti che hanno portato al famoso anno zero da cui ripartire, per cominciare un ciclo; tutti ingredienti mescolati insieme in un grande impasto, mai separati, ma uno causa e conseguenza dell’altro. E la scelta del tecnico nerazzurro di tirare in ballo l’impegno molto ravvicinato di Europa League ci è sembrata francamente poco felice, perché una gara giocata tre giorni prima può togliere fiato e gambe, ma non può rapirti l’anima e la voglia. A noi sembra che l’impasto, ultimamente, stia andando a male.
CUORE – Le sconfitte più grandi non sono quelle dei 4-1, dei rigori non dati, dei fuorigioco non visti; non sono le finali o i campionati sfuggiti all’ultimo minuto, né quelle degli autogol o del contropiede; non è tutto negativo quando dopo aver attaccato per 90 minuti, si subisce gol al 91′. Così non si perde mai davvero, perché qualcosa rimane sempre, che sia il ricordo o la sensazione di averci provato, o la consapevolezza di poter continuare a dare tutto a partire dalla prossima occasione. Si esce sconfitti e a testa bassa quando non solo le proprie capacità vengono meno, ma anche quando non ci si sforza di compensare le lacune col coraggio: non c’è mai sconfitta nel cuore di chi ci prova. Il risultato è occasionale, la prestazione e le intenzioni no.