Beccalossi: “Ai miei tempi, squadra più importante del singolo”
Evaristo Beccalossi ha parlato a Il Corriere dello Sport delle sue esperienze calcistiche e tante vicende accadute nel suo calcio: “Quando ho cominciato ad amare il calcio, i numeri non erano personalizzati. Era il ruolo, cioè la squadra, più importante del singolo, ma così è nella società dell’io in cui viviamo. I miei numeri preferiti […]Evaristo Beccalossi ha parlato a Il Corriere dello Sport delle sue esperienze calcistiche e tante vicende accadute nel suo calcio: “Quando ho cominciato ad amare il calcio, i numeri non erano personalizzati. Era il ruolo, cioè la squadra, più importante del singolo, ma così è nella società dell’io in cui viviamo. I miei numeri preferiti erano l’uno, il portiere, il tre per Facchetti e Cabrini, il sei perchè il libero mi piaceva già dal nome, La somma di questi numeri era 10, il numero dei campioni che sapevano fare tutto, il numero principe del calcio, di Pelè, Maradona, Meazza, Zidane e il mio numero“.
“In oratorio si giocava cinque contro cinque, io facevo quello che ho sempre fatto in tutta la mia vita. Facevo il fenomeno. Mio padre mi mandava lì a giocare tutti i giorni e dopo un anno e mezzo fui preso alle giovanili del Brescia, mi ritrovai in un campo grande, senza capire dove fossi e perchè si dovesse correre tanto. Era il pallone che doveva correre, non io, una convinzione che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita. Ho sempre giocato per divertirmi e non per faticare. Se si chiama gioco del calcio ci sarà pure una ragione. Nelle giovanili del Brescia non passavo mai la palla e non mi facevano giocare, ed io aspettavo di entrare giocando dietro la porta contro il muro e non mi annoiavo. Nessuno mi cacciava perchè poi entravo e risolvevo la partita. Un giorno mi vide Mauro Bicicli, allenatore della prima squadra, e mi disse che avrei giocato lì, contro il Catanzaro. Ho preso la palla i primi cinque minuti e poi mai più. Ero gracile e dopo il calcio di inizio feci un tunnel al mio marcatore che mi passò vicino e mi disse che se l’avessi rifatto mi avrebbe fatto finire a Soverato con un calcio, un comune lontano 20 km e così pensai bene di astrarmi dalla partita“.
“Avevo un rapporto confidenziale con il pallone, trascorrevamo molto tempo insieme. Di correre non ne avevo voglia, ma poi mi hanno spiegato che bisognava adattarsi agli schemi tattici. I miei idoli erano stati Sivori, Rivera, Cruyff, li guardavo per ore per apprendere idee e trucchi. Per me era drammatico allenarmi, ma la domenica facevo comunque faville. C’è stato perfino chi voleva trasformarmi in un’atleta“.