La confusione. Questo è l’unico denominatore che unisce tutto il post-Triplete dell’Inter. E’ cambiato il presidente, sono cambiati gli allenatori, sono cambiati dirigenti e giocatori, ma la confusione è sempre rimasta. Oggi il tempo sta rimettendo lentamente in ordine le cose, ma gli ultimi cinque anni di Inter sono stati una danza al buio tra […]
La confusione. Questo è l’unico denominatore che unisce tutto il post-Triplete dell’Inter. E’ cambiato il presidente, sono cambiati gli allenatori, sono cambiati dirigenti e giocatori, ma la confusione è sempre rimasta. Oggi il tempo sta rimettendo lentamente in ordine le cose, ma gli ultimi cinque anni di Inter sono stati una danza al buio tra personaggi degni di un libro di Garcia Marquez o di una canzone di Elio e le Storie Tese. Chi ha vissuto con intensità questi ultimi anni di Inter ha imparato ad abituarsi alla situazione, ma che il carnevalesco periodo di difficoltà sembri avviato verso una fine, e dunque, verso un’ordine, è testimoniato dalla cessione di Fredy Guarin. Colombiano è colombiano, come i personaggi dei libri di Garcia Marquez, e sicuramente non è il più bizzarro ad aver vestito la nostra casacca in questi anni, ma è senza dubbio l’emblema vivente di quel periodo di storia nerazzurra.
Fredy sbarca a Milano nel gennaio 2012, dopo una lunga trattativa che lo ha strappato al Porto (il che è di per sè motivo di confusione) per poco più di una decina di milioni di euro. Arriva da infortunato e deve attendere il suo momento prima di poter vestire la maglia numero “14” (nella smorfia, l’ubriaco, confuso per definizione). Lo fa il giorno dell’esordio da allenatore professionista di Andrea Stramaccioni, terzo tecnico di una confusa stagione, in una partita altrettanto confusa, un Inter-Genoa terminato 5-4, pirotecnico e disordinato. Pian piano le caratteristiche di questo statuario ragazzo di Boyacà emergono: è fisicamente straripante, una vera e propria forza della natura, che quando ha spazio progredisce in tutto il suo impeto e scarica un tiro al tritolo con il destro. Tecnicamente è buono, ma funziona solo a una certa intensità: quando scende in campo con il piglio giusto, seppur tatticamente disordinato, fa valere la propria grande forza di volontà e i propri colpi, ma quando è in giornata no (e le sue giornate no non saranno poche), cade nell’indolenza e sbaglia di tutto. La confusione, nel senso più vasto del termine: nel disordine più totale puoi trovare il più profumato dei fiori come uno yogurt scaduto, e Guarin lo dimostra quando prende palla. Può tirare la bomba e far saltare la porta, può provare il missile diretto al terzo anello. Può dilagare col fisico, può fare un fallo stupido. Un giocatore del genere non ti lascia indifferente, ti lascia combattuto. In te sono in conflitto per tutto l’anno due demoni: quello che lo ritiene un giocatore da rispedire sul fiume Magdalena, che bagna la sua città d’origine, e quello che esulta al suo gol, un gol che molte volte ti toglie le castagne dal fuoco (vedere la voce “Derby d’andata”). Anche i suoi tecnici sono combattuti: lo faccio giocare con tutti i suoi difetti per aspettarmi una giocata o lo tengo fuori? Titolare o panchinaro? Nella partita più bella della iper-confusa Inter di Stramaccioni, inserire Guarin a partita in corso è stato provvidenziale: in quel leggendario Juventus-Inter, da un tiro in allungo del Guaro è nato il gol del tap-in di Milito, valido per il vantaggio dei nerazzurri.
La discontinuità era il marchio di fabbrica di quell’Inter, e Guarin ne era l’emblema: tra qualche bella fiammata, i periodi di vuoto totale erano un’abitudine sempre più frequente con il passare del tempo. Le folle ne gridano la partenza, sgranano i rosari di fronte al club russo, spagnolo o russo che sia, perchè il facoltoso presidente di turno cali l’assegno magico e si porti via il giocatore. A un certo punto tutto si realizza e la Juve sembra sul punto di fargli vestire l’odiata casacca, ma le stesse folle scendono in piazza a Milano perchè il Guaro resti, o quantomeno non vada ai rivali di sempre. In mezzo ai difetti, c’è tanto affetto. Affetto reciproco, perchè Fredy è sempre stato fortemente legato ai colori dell’Inter e ai suoi tifosi, a volte giustamente critici, ma duri per un carattere emotivo come il suo.
Tra alti e bassi, gol, insufficienze e cessioni saltate, sono passati 4 anni. Alla fine, dopo tanta confusione, l’ordine ha fatto il proprio corso e se l’è portato in Cina, mentre la Milano nerazzurra sembra indirizzata a ritrovare quella dimensione di prestigio che ha sempre avuto in Italia. Una volta ufficializzato il trasferimento, Fredy ha ringraziato i tifosi dell’Inter per gli anni passati insieme, dicono col magone, ma sicuramente con i colori nerazzurri nel cuore. Come quando esultava con rabbia e tutta l’adrenalina in corpo dopo i suoi gol, che avevano un sapore diverso, perchè i suoi occhi sono sempre stati più spiritati degli altri. Così lo ricordiamo e gli auguriamo buona fortuna, perchè, che lo si voglia o meno, è stato il simbolo di una parte della nostra storia, confusionaria ma mai noiosa. Come lui.