L’Intertinente – Don Rodrigo e la sua Trenza: ultime note di un romanticismo svanito
Una rubrica per rafforzare un concetto: l’impertinenza di essere nerazzurriNe avesse avuto possibilità, avrebbe volentieri barattato il taglio della sua caratteristica e flebilissima treccia con un trofeo che potesse introdurlo nelle indelebili (e talvolta troppo rigide) memorie degli almanacchi. Purtroppo per la sua carriera, invece, Rodrigo Palacio ha solo avuto la sventura di non sollevare coppe con la casacca dell’Inter, perché il resto della militanza nerazzurra cita dedizione, spirito, e connessione che l’attaccante argentino ha garantito alla Benamata e a chi ne adori l’unicità ogni domenica.
Il suo curriculum ha all’attivo una settantina di marcature in quasi 170 partite disputate con il neroblu addosso – in pratica, una rete ogni tre gare -, quaranta delle quali nelle prime due stagioni ove il rendimento dell’ex Genoa fu strabiliante, una finale di Coppa Italia sfumata nel 2015/2016 anche a causa di un calcio di rigore da lui fallito nel ritorno di San Siro contro la Juventus, centinaia di chilometri percorsi e settantasette camicie consunte dal sudore per la causa interista, senza mai risparmiarsi né ritrarsi, soprattutto negli istanti in cui desistere sarebbe stata la via di fuga più agevole.
Al contrario, Don Rodrigo si è saputo cimentare con sacrificio ed adattamento in svariate occasioni, sempre investendo il proprio impegno per la tutela dell’interesse supremo dell’Inter: ha esordito nella illusoria e catastrofica avventura inaugurale di Andrea Stramaccioni, ha trasportato la carretta del primo Walter Mazzarri – non potendo nulla, però, per evitarne il rovinoso arresto un anno più tardi -, ha riaccolto Mancini nella sua seconda gestione dell’Internazionale, e ha concluso in maniera professionalmente impeccabile con Frank de Boer, Stefano Pioli ed infine Stefano Vecchi.
Il tutto grazie all’umile dignità del lavoro e alla formativa cura del dettaglio, che fondendosi legittimano a bramare i traguardi più ambiziosi, e a restare scalfito nei ricordi di coloro i quali custodiscano ancora la chimera di un spirito sportivo che fu. Perché Palacio rispecchia proprio questo: un’eccezione dolcemente malinconica nel Calcio del Terzo Millennio, l’accento romantico su una disciplina che un tempo accarezzava le emozioni stupefacendo le masse e tramandando leggende, e che oggi ha dovuto snaturarsi per restare al passo del processo di industrializzazione che le è stato imposto, nella foga di far quadrare i conti e di ragionare su come incrementare i ricavi.
Oggi pomeriggio, Inter-Bologna sarà l’ennesimo appuntamento con il rimpianto, magari non equiparabile a quello della scorsa settimana con Zenga in termini di trasporto emotivo, ma indubbiamente sentito e sincero; poiché, in fondo, la differenza è nelle finezze che nessuno denota: indipendentemente da quanto blasonata sia la bacheca personale, onorare l’Inter ed inorgoglirsi di esserne stati parte sono valori aggiunti che non possono essere compensati da alcun successo. Tra poche ore, dunque, Palacio potrà persino presiedere una relazione in merito: varie esponenti dell’attuale spogliatoio di Spalletti ne avrebbero bisogno estremo.
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