La vera sfida, qui, non è raccontare chi fosse Giacinto Facchetti, chi non fosse, cosa abbia rappresentato per l’Inter, i diciotto anni di militanza in nerazzurro, e il palmarès, il suo ruolo nella Grande Inter, con Herrera, e gli Scudetti le Coppe dei Campioni le Coppe Intercontinentali gli Europei vinti con la Nazionale e l’argento iridato e la fedeltà alla maglia dell’Inter e tutti i riconoscimenti ricevuti in vita e postumi e le minchiate su Calciopoli-bis su cui sono stati scritti libri, girati film e documentari, fatte interviste e inscenati dibattiti televisivi e non televisivi. No, la vera sfida, qui, è quella di riuscire a dire qualcosa su Giacinto Facchetti senza che il lettore passi ad altro, senza ripetere il già ripetuto, senza che questo contributo resti per sempre entro i confini del superfluo.
Facchetti Giacinto detto El Chipe nato a Treviglio il 18 luglio 1942 anche se oggi non è la culla che c’interessa, ma la bara: perché, così com’è nato, Giacinto Facchetti è morto, e lo ha fatto il 4 settembre 2006, quattordici anni fa esatti, dopo appena 64 anni di esistenza, dopo almeno 29 primavere da interista (tra campo e scrivania) e dopo tre mesi di cancro al pancreas (il misterioso “male incurabile”, la mai menzionata “lunga malattia”) che non ti risparmia neanche se sei Giacinto Facchetti, neanche se una volta – a fine carriera, a 36 anni – ti sei spaccato tre costole in una partita contro la Juventus e hai avuto financo il coraggio di provare a continuare a giocare, e poi di rientrare nel mondo del pallone, di non abbandonare così.
Andò così a Facchetti Giacinto detto El Chipe – soprannome nato da un errore di Helenio Herrera, che una volta lo chiamò Cippelletti – che le costole se le ruppe, appunto, in un Inter-Juve del dicembre 1977, nella stagione antecedente i Mondiali in Argentina del 1978. Ci provò, Facchetti, a recuperare: fece in tempo a rientrare all’ultima di campionato con l’Inter, e fu una partita disastrosa. Si trattò di un Inter-Foggia 2-1, dove l’unico gol dei Satanelli arrivò in realtà proprio da un autogol di Facchetti, che giocò avendo già in tasca la convocazione ai Mondiali da parte del ct Enzo Bearzot: convocazione e fascia da capitano assicurata. Perché era troppo importante, lui, anche se era mezzo rotto e anche se aveva saltato tutta la seconda metà della stagione. Ma alla fine di quella che fu la peggior partita della sua vita, Facchetti, annunciò il suo ritiro dal calcio giocato: spiazzando tutti, a sorpresa. E ne parliamo perché, oggi, di Facchetti, sono i capitoli conclusivi che c’interessano maggiormente: nel calcio e nella vita.
Facchetti si sentiva un peso e l’ultima cosa che volesse era quella di sentirsi – o peggio essere – un peso: e così si ritirò, a 36 anni, non giovane e neppure vecchio. Senza trascinarsi una carriera che non sentiva più sua, dopo un’analisi di 90 minuti, di una partita. Una partita per capire di non aver più niente da dare al calcio oltre a quanto già dato, e quanto. Una partita – quell’ultima partita – per decidere di lasciare la propria maglia numero 3 (ritirata), le proprie fasce da capitano (irritirabili), la propria esistenza da Uomo Qualunque e consegnarsi a un’altra esistenza che lo avrebbe portato via, così dicon tutti, troppo presto: a 64 anni, si diceva. Quattordici anni fa oggi.
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