Conte: “Ebbi due proposte, Roma e Juve. Poi Boniperti mi chiamò e mi disse…”
L'ex allenatore del Chelsea ricorda alcuni episodi del suo passato, tra i quali il momento del passaggio alla società bianconeraTerza ed ultima parte della lunga intervista concessa da Antonio Conte a La Gazzetta dello Sport, nella quale ha rievocato alcuni suoi ricordi del passato più remoto, arrivando addirittura ai suoi inizi da calciatore e poi da allenatore. Ecco le sue dichiarazioni.
Conte, come e dove inizia?
“È mio padre che ne ha merito. Lui è stato il presidente di una squadra storica della mia città: la Juventina Lecce. Era un po’ tutto. Era presidente, allenatore, magazziniere. Portava le maglie, le lavava a casa, preparava il té per i ragazzi. Il mio primo ricordo di calcio è associato a papà e alla Juventina Lecce. Per lui era una vera passione. Fin da quando ho iniziato a camminare mi portava a vedere le partite. Aspettavo la domenica come un giorno di festa, il mio preferito. Sono cresciuto a pane e pallone, e non ho mai smesso”.
Di che colore aveva la maglia?
“La maglia della Juventina Lecce era bianconera…”.
Vede che era scritto nel destino?
“Può essere… Sicuramente la mia famiglia era tifosa del Lecce e della Juve”.
Suo padre che lavoro faceva?
“Noleggiava automobili e portava con il pulmino i bimbi a scuola”.
E sua mamma?
“La sarta a casa. Ricordo bellissimi abiti da sposa fatti a mano. Era bravissima. Ogni tanto però mi prendevo qualche ceffone perché, con il pallone, ero capace anche di sporcare il bianco candido dell’abito da sposa”.
Che pallone era?
“Palloni che adesso qualunque bambino rifiuterebbe. Di cuoio, quel cuoio con le cuciture in bella evidenza. Dopo
un po’, per la troppa usura, usciva fuori la camera d’aria rosa. Papà li teneva con amore, li curava con il grasso. Insomma li trattava come dei figli in modo che durassero di più. Anche perché costavano parecchio”.
Lei inizia nelle giovanili del Lecce…
“Ho fatto la trafila nella Juventina e poi a mio papà i responsabili del Lecce chiesero se potessi fare un provino. Papà non era favorevole, per lui la priorità della vita era lo studio. Il football, nonostante fosse la sua passione, veniva dopo. Aveva paura che il calcio mi potesse distrarre. Avevo dodici anni e lui mi disse: “Antonio, voglio esser chiaro: la prima volta che a tua madre, ai colloqui con gli insegnanti, dicono qualcosa di negativo sul tuo profitto, tu hai chiuso con il pallone”. Da lì in poi ho sempre abbinato campi di calcio e libri di studio, anche per dare soddisfazione della mia famiglia. Ho faticato, mai rimandato e mai bocciato, ma alla fine mi sono laureato in Scienze motorie con 110 e lode a Foggia. È stato un percorso parallelo che ho voluto sempre continuare”.
E la collezione di figurine Panini la faceva?
“Non chiedevo i soldi a mamma e papà per comprarle. Non mi hanno mai fatto mancare nulla,ma non navigavamo nell’oro. In quel periodo, se eri bravo, le figurine te le facevi. Magari compravi le prime, ma poi giocavi con gli altri e, se eri sveglio, potevi vincerne. Mi viene nostalgia nel pensare a quegli album che non riuscivo mai a finire…”.
Poi è diventato lei stesso una figurina…
“Ti senti calciatore quando finisci sulla figurina, quello è veramente il primo traguardo. Non erano i soldi, era avere la propria foto da incollare. Allora ti sentivi davvero un calciatore. Io i primi soldi del calcio li ho iniziati a prendere con la Primavera del Lecce. Se vincevi ti davano trentamila lire, se pareggiavi quindicimila. Con quelli ho comprato la Vespa 125, di seconda mano. E dopo un Suzukino, con il denaro del primo contratto con il Lecce”.
L’arrivo a Torino, alla Juve come fu?
“Erano venuti a vedermi Vycpàlek e poi Sergio Brio. A novembre ebbi due proposte, dalla Roma e dalla Juventus. Ma poi mi chiamò Boniperti per dirmi: “Devi venire alla Juve, passami la mamma”. Lei era molto riservata, insomma non voleva parlargli. Voleva rassicurarla che a Torino avrei trovato un’altra famiglia…”.
Passare da Lecce a Torino non dovette esser semplice…
“Arrivai a novembre del ’91 alla Juve, l’impatto fu traumatico. Ricordo che ero in albergo ad aspettare il dottor Agricola per fare le visite mediche. C’era una nebbia che non si vedeva a un metro e per me, che venivo dal sole e che fino ad ottobre andavo al mare, fu un trauma. Il primo anno alla Juve fu difficile per il clima, per tutto. Io davo del lei a tutti i giocatori, non riuscivo a dar loro del tu: per me erano idoli visti nelle figurine. Ritrovarmi accanto a Baggio, Schillaci, Julio Cesar mi sembrava un sogno. Al presidente davo anche del voi, perché da noi, al sud, il voi è superiore al lei”.
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