EDITORIALE – Quanto ci mancherà
Di Giorgio Crico.
Quarantotto ore. Tanto è passato dall’ultima a San Siro di Javier Zanetti eppure il velo di malinconia che c’è nelle menti di tutti noi, fratelli nella fede nerazzurra, non vuol saperne di sparire. Niente più capelli perfetti, niente più sgroppate sulla fascia, niente più numero quattro, niente più fascia gialla. Niente più Pupi.
Pazzesco. Forse il velo di malinconia non se ne vuole andare perché stiamo realizzando solo in queste ore cosa vorrà dire per noi non vedere più il capitano in campo. Uno che c’era con gli scudetti, con le Coppa Italia, con le Supercoppe italiane, con la Champions, con tutti i trofei degli ultimi vent’anni. Ma che c’era anche dopo il 5 maggio, dopo Ceccarini, dopo lo 0-6 che ancora ci sorbiamo in video ogni 11 maggio, dopo la semifinale di Champions League del 2003. Uno che, alla fine, noi amiamo da morire perché, prima di tutto, è stato lì a soffrire maledettamente proprio assieme a noi. E che quando anche noi non ci credevamo quasi più non ha mai smesso per un secondo di dire che i risultati sarebbero arrivati.
E ha avuto ragione perché Javier lascia da capitano più vincente della lunga storia dell’Inter, con la quale ha avuto un rapporto unico ed esclusivo, impossibile da raccontare davvero fino in fondo per quanto sia andato in profondità sotto la superficie epiteliale della scorza nerazzurra che tutti condividiamo (anche se non manca chi è riuscito quasi alla perfezione a farlo). Pupi era l’Inter, in un certo senso. Era l’Inter che non vinceva mai ed è stato l’Inter che vinceva sempre, mantenendo comunque e costantemente una sua coerenza silenziosa che ne ha fatto il leader dello spogliatoio dal 1995 a oggi. Già, oggi. Perché domani lui sarà un dirigente.
Chissà come se la caverà dietro a una scrivania. Certo, lo spazio davanti a sé non sarà più così grande come sembrava quello della fascia sulla quale amava così tanto correre e dribblare ma, forse, da membro interno della società Inter il capitano riuscirà ancora a combattere per la Beneamata bene come faceva sul rettangolo di gioco: lui stesso ha detto, sabato sera, che non sa se lo farà “bene o male. Quel che è certo è che darò tutto per difendere anche lì questa maglia che amo“. E in questa frase c’è tanto di lui, anzi: c’è tutto di lui.
Ci mancherà da morire, capitan Zanetti. E mancherà a tutto lo spogliatoio, che si vedrà privato dell’uomo che per primo accoglieva i nuovi arrivati e mediava regolarmente tra chi aveva screzi. Quello che, parole di Lele Adani, “aveva una parola dolce per chiunque“. Uno che ha sempre avuto marchiato a fuoco nel cervello la consapevolezza che vittorie, sconfitte e giocatori vanno e vengono, solo l’Inter resta. E resta sempre.
Assieme a lui, come se non fosse sufficiente, lasceranno anche Milito e Samuel, forse addirittura Cambiasso. Ci sarà tempo e spazio per salutare a modo anche loro. Ma, dicendo addio, Pupi ha chiuso idealmente un ciclo, il suo ciclo, fatto di tanta Argentina nei ranghi nerazzurrri, molte delusioni ed enormi vittorie. Non è solo la fine della carriera di Zanetti, finisce anche un’epoca, l’epoca degli uomini prima che calciatori, degli atleti prima che dei goleador e dei pedatori dal cuore gentile, dell’Inter di (o dei?) Moratti.
E allora, caro Pupi, semplicemente, grazie.