EDITORIALE – Sciogliersi al dunque
Assioma facilmente verificabile anche solo andando a contare i punti immagazzinati negli scontri diretti – giocati finora – con le squadre che precedono la Benamata in classifica (per la cronaca: quattordici in undici partite, quattoridici sui trentatré disponibili quindi, a cui vanno aggiunti i due soli fatti nei derby cittadini), l’incapacità di fare bottino pieno quando tornano ad aprirsi spiragli per l’Europa inattesi o quando l’avversario è di alto valore è la maledizione costante dell’Inter di quest’anno. Un po’ come se i giocatori sentissero talmente tanto l’importanza della partita che non riescono più a esprimersi come dovrebbero (e magari vorrebbero anche), finendo così per subire una sorta di black out totale e quindi scorrazzare confusi su e giù per il campo senza aver chiaro in testa cosa fare.
Questo complesso mentale, a questo punto è obbligatorio chiamarlo così, è probabilmente solo una delle tante cartine tornasole che rendono l’idea di quanto la squadra nerazzurra abbia bisogno di compattarsi e creare dentro di sé quella consapevolezza collettiva che, in ultima analisi, è ciò che distingue una vera compagine da un ammasso disordinato e scomposto di giocatori. Se qualcuno avesse dei dubbi, al momento il Biscione assomiglia enormemente di più al nostro secondo termine di paragone della frase precedente che non a una squadra tout-court.
Come è stato possibile arrivare sin qui, dunque, e non avere ancora una squadra dotata di una sua identità? La risposta è tanto semplice quanto scontata: il quarto progetto differente in quattro anni.
Di fatto, l’Inter cambia ormai ogni stagione i cosiddetti “uomini da cui deve ripartire”, senza riuscire a garantire, a qualunque mister sieda in panchina, un gruppo costruito coerentemente e sufficientemente solido (proprio nella conoscenza reciproca tra giocatori) per poter rivoluzionare ogni anno l’impianto di gioco o il modulo. È quindi logico notare come ogni allenatore fatichi parecchio ad assemblare un sistema valido ed efficace che esalti i singoli o, più prosaicamente, riesca a farli rendere al meglio secondo quelle che sono le loro caratteristiche. Anche perché ogni tecnico trova nello spogliatoio elementi funzionali al progetto di chi lo ha preceduto ma non necessariamente al proprio, giocatori che non ha chiesto espressamente ma sui quali la società ha comunque deciso di investire e, da ultimo, tre o quattro pedine richieste espressamente. Amalgamare tutto ciò non è esattamente facile come bere il proverbiale bicchier d’acqua. E non stiamo nemmeno a entrare ulteriormente nello specifico, quando a cambiare di gestione in gestione non sono solo gli interpreti ma anche i moduli, le tattiche o le filosofie di gioco.
Il risultato è che non c’è alcuna identità di squadra, almeno per ora. Mancini pare aver notato questa fragilità prima mentale e poi tecnica dei suoi (in parte colpa degli stessi giocatori e in parte della società) e, in questo senso, si possono leggere in quest’ottica le sue parole di ieri, con le quali spiegava che «non si può sempre rimproverare i giocatori».
Se dal lato tecnico-tattico sembra infatti che il Mancio faccia ancora fatica a inquadrare perfettamente tutti i giocatori a sua disposizione e, in effetti, non ha ancora risolto tutti i rebus che la rosa gli ha sottoposto e gli sottopone, è anche vero che l’allenatore jesino pare invece aver ben presente il polso dello spogliatoio. E, onestamente, è anche consolatorio.