EDITORIALE – Sintomi e malattie
Il pareggio col Carpi, “buono” per proseguire la terrificante media punti dell’attuale ciclo nerazzurro – un punto a partita dalla Lazio in poi –, ha avuto anche il poco piacevole onore di aprire le cateratte sul problema della sterilità offensiva dell’Inter. Il primo giro di valzer se l’è preso Mancini, che ha sparato ad alzo […]Il pareggio col Carpi, “buono” per proseguire la terrificante media punti dell’attuale ciclo nerazzurro – un punto a partita dalla Lazio in poi –, ha avuto anche il poco piacevole onore di aprire le cateratte sul problema della sterilità offensiva dell’Inter. Il primo giro di valzer se l’è preso Mancini, che ha sparato ad alzo zero sul suo intero reparto offensivo, stigmatizzando l’incapacità dei suoi uomini di chiudere le partite segnando più di un gol. Il dibattito aperto dal tecnico del Biscione è caldissimo anche perché potrebbe avere (im)prevedibili conseguenze nell’ambito del calciomercato, con le energie e risorse attualmente a disposizione che verrebbero dirottate nella ricerca di una punta – o un esterno offensivo, anche.
Il problema, però, non è che l’Inter segna poco in sé: accadeva anche a inizio anno e pure i punti arrivavano in copiose quantità. Il dilemma vero è doppio e ha nella sterilità offensiva una conseguenza diretta più che una causa: la malattia della Beneamata è non riuscire più ad avere quell’approccio granitico alle partite che generava la marmorea solidità della squadra, evidentissima nell’approccio col coltello tra i denti che i giocatori avevano nei duelli individuali dove, consapevoli di non avere dalla loro una manovra armonica, davano fino all’ultima goccia di sangue. Adesso invece gli uomini si sono inspiegabilmente imborghesiti, diventando molli e leggeri nei contrasti così come nella lettura delle situazioni, e non riescono più a fare blocco come prima di fronte alla porta di Handanović. E tutto questo per andare alla ricerca di qualche tremolante passo avanti a livello propositivo senza peraltro trovare nulla di convincente.
L’altro pezzo della nostra doppia questione, infatti, è la sempiterna assenza di una manovra articolata, che d’altronde mal si concilia con la natura remissiva ma rocciosa della compagine. Dire che il Biscione non avesse gioco non è mai stato corretto: semplicemente, il gioco proposto da Mancini e compagnia era scarno, poco gradevole alla vista, talvolta farraginoso e più spesso macchinoso. Ma c’era. Senza gli interpreti adatti al giro di vite estetico/tattico che Mancini sta cercando di imporre, l’Inter si sta trasformando – o forse è già divenuta – in una squadra snaturata, che non riesce più a trarre linfa dalle sue qualità e che si lancia in modo improbabile in voli pindarici che non le possono appartenere, perlomeno con questo organico. E al termine dei 90’ ci rendiamo solo conto di come ora, ai nerazzurri, rischia di non rimanere in mano più nulla: né il poco appagante ma funzionalissimo gioco di prima, né l’irraggiungibile alchimia di coralità ed efficacia che si cerca adesso.
La scarsa resa sotto porta degli attaccanti è alla fin fine figlia del rilassamento generale: tra agosto e novembre, gli avanti erano perfettamente consapevoli di starsi giocando una delle pochissime chance che avrebbero avuto lungo il corso della partita quando si trovavano di fronte a una palla gol e agivano di conseguenza, cercando quasi disperatamente quella rete che avrebbe scavato il solco in classifica tra la vittoria e uno 0-0. E quel protendersi con tutte le forze verso l’unico ma decisivo gol era direttamente figlio della stessa bava alla bocca che avevano i centrali nel fermare le punte avversarie o i centrocampisti nello sradicare palloni. Oggi la poca cattiveria agonistica con cui gli attaccanti dell’Inter vanno verso il pallone dentro i sedici metri avversari è solo il sintomo più evidente del male meneghino: un mutamento d’arma dalla sciabola al fioretto che non rispecchia in nulla l’anima della squadra (né le sue caratteristiche).
La situazione attuale non può lasciare sereni, un po’ perché stanno per arrivare delle partite cruciali contro le avversarie di sempre, un po’ perché quando si intraprende il guado di un fiume il rischio di rimanere impantanati a metà senza più essere né carne né pesce c’è sempre. Il mercato non può essere una risposta sensata: da sempre, a gennaio, si tende più a mettere ciliegine su torte finite che non aggiungere ingredienti fondamentali e non si capisce perché anche quest’anno la musica debba essere differente.
La speranza vera che può confortare gli esacerbati animi nerazzurri è per forza Mancini: solo Roberto da Jesi è in grado di analizzare e capire il momento della sua creatura e a lui spetta trainarla fuori dalla melma in cui è rimasta invischiata. A patto, però, di poter ammettere con sé stesso almeno di aver commesso degli errori e, magari, concentrandosi sul rimanere con la mente sufficientemente fredda e sgombra.