Il suo nome è scolpito nella storia dell’Inter. Samuel Eto’o arrivò nell’estate del 2009, al posto di un certo Zlatan Ibrahimovic, dopo aver vinto tutto con il Barcellona. Con grande umiltà si mise a disposizione di mister Mourinho, impiegandosi in un nuovo ruolo, sacrificandosi per la squadra. Un campione di altri tempi, una pedina fondamentale per il Triplete conquistato a fine anno. Eto’o si è concesso ai microfoni de La Gazzetta dello Sport per rivivere le emozioni di quel trionfo: “Alzo la coppa verso il cielo e non ci sono solo le mie mani a tenerla: è un flash, ci vedo anche le mani di milioni di tifosi dell’Inter, che la tirano su assieme a me”.
Le due Champions consecutive: “Molto diverso: l’Inter cercava la coppa dei campioni da 45 anni: arrivare in una piazza così speciale e così affamata e vincerla subito mi sembrò un’impresa unica, un sogno”.
Il primo contatto con l’Inter: “Fu con quello che sarebbe diventato mio fratello Marco. La storia del suo sms si conosce: un certo Materazzi mi scrive “Se vieni tu all’Inter vinciamo tutto”, non ho quel numero in rubrica e chiedo ad Albertini: “E’ suo?”. Era il suo. Una cosa del genere non mi era mai successa in tutta la carriera: quel messaggio ha avuto un grande peso nella mia scelta. E ha fatto nascere una grande amicizia”.
Mourinho e Guardiola: “L’unico punto in comune che hanno questi due allenatori è la voglia di vincere: personalità completamente differenti e differente visione di calcio”.
Terzino per Mourinho: “Terzino puro solo a Barcellona, ma quella fu un’emergenza. E comunque ciò che pensai quella sera in realtà fu il mio pensiero di tutto l’anno. Quando fu espulso Thiago Motta, Mourinho chiamò me e Zanetti, ci spiegò come metterci in campo: non avevo neanche il tempo di riflettere su quanto avrei dovuto correre stando sulla fascia, mi dissi solo ‘Dai tutto e vedremo alla fine’. E alla fine eravamo in finale”.
Il feeling con Milito: “Grazie a Dio la gelosia non è un sentimento che mi appartiene. Diego era in un grande momento, vicino alla porta non sbagliava mai, ma in fondo faceva quello che facevo io: io giocavo per la squadra, lui segnava per la squadra”.
Il gol contro il Chelsea: “Di quella notte ricorderò per sempre due cose. Il discorso di Mourinho prima della partita: ‘Nessuna squadra che ho allenato può battermi’. Entrammo in campo con una determinazione diversa: non giocavamo solo per noi, ma anche per l’allenatore. E poi lo stop che feci prima di segnare, la palla scendeva e mi dissi: ‘Se lo fai bene, poi segni facile’. Ce l’ho ancora qui negli occhi, quel controllo”.
La rimonta di Kiev: “Partita strana, così tanto che nell’intervallo José urlò come poche altre volte: non la stavamo giocando. Il gol di Snejider fu una liberazione, ma io non mi ero mai sentito già fuori: sapevamo di essere una squadra di campioni, con la mentalità da campioni”.
Il racconto prima della finale: “Non fu lungo, dissi semplicemente: ‘Una finale non si gioca, si vince. O moriamo in campo e portiamo la coppa a Milano, o moriamo perché a Milano non ci torniamo. Quindi vediamo di tornarci, e di portarci la coppa'”.
Un ritorno all’Inter: “Non so se ci sia mai stata una chance concreta, ma avevo espresso il desiderio di tornare: sarebbe stato molto bello. Non si smette mai di essere interisti: se sei interista una volta, morirai interista. Non c’è un motivo e questa cosa non può cambiare: è così e basta”.
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