FOCUS – L’incudine, il martello, il calcio
Se si dovesse disegnare in una sola immagine la tristezza nel calcio, questa molto probabilmente assumerebbe le fattezze di uno stadio vuoto. Le partite senza pubblico, le cattedrali dello sport senza i loro laici pellegrini, sanno di desolante oppressione, di paradossale spettacolo sordo e cieco.
Forse proprio per evitare il palesarsi di una così triste scena, forse e molto più probabilmente perché gli interessi in gioco non sono di poco conto, la Corte di Giustizia Federale della FIGC ha oggi accolto l’istanza della società calcistica del Milan, affinché la prossima sfida interna contro l’Udinese possa disputarsi a ?porte aperte?.
Tutto bene, dunque, niente più tristezza da stadio vuoto, situazione tornata alla sua ?normalità? insomma. Ma in cosa consiste questa normalità del calcio italiano? Nell’inciviltà di una parte di tifoseria che ogni club calcistico del nostro paese si porta dietro a ogni sua apparizione? Oppure nell’incapacità delle ?istituzioni? di trovare soluzioni adeguate a quanto di peggio si vede e si sente sistematicamente negli stadi italiani?
La risposta a questa domanda retorica è facile ed amara. La normalità del calcio italiano è fatta, ahinoi, di tanta ignoranza e poco buon senso, di mille intenzioni e scarsa concretezza: se un partita di pallone diventa il pretesto per gruppi di delinquenti più o meno incalliti per dare prove di vile forza, per sputare in mondovisione le proprie idee razziste, offensive e incoerenti, c’è davvero poco da rallegrarsi. D?altra parte se la Federazione Italiana Giuoco Calcio ben pensa che per risolvere il problema del tifo ?sbagliato? la soluzione è chiudere gli stadi e far perdere partite a tavolino alla squadra ?coinvolta? nella vicenda (salvo poi fare dietrofront alla prima vera occasione di applicazione della norma), pure la speranza che qualcosa possa migliorare fa le valigie e prende il largo.
La realtà delle cose, purtroppo, ha delle radici troppo profonde perché cambi con interventi dall’alto spesso arrangiati in fretta e furia, sempre poco efficaci, a volte addirittura peggiorativi del quadro. Non è un caso che di fronte alla prospettiva di chiudere gli stadi, gli ultras integralisti invece che piegarsi pacificamente al diktat della FIGC abbiano fatto muro, si siano compattati come probabilmente mai prima e, in un certo senso, alla fine, l’abbiano anche avuta vinta. Non è un mistero che laddove gli stadi si fossero davvero chiusi, economicamente e fisicamente il calcio italiano sarebbe scomparso dalle cartine.
La realtà delle cose parla come non mai di un calcio e del suo tifo come rappresentazione di una società sottostante in cui qualcosa, più che qualcosa, non funziona. Dove alcuni cancri sono talmente tanto estesi da rendere inutile, a volte dannoso l’intervento che pretende di essere salvifico e che invece rischia di ammazzare più del male in sé. Chi scrive non ha mai fino in fondo capito perché per le frange ?cattive? del tifo debbano pagare le società di calcio: quei ?tifosi?, quelle persone, non sono figlie dei club calcistici, dei loro presidenti e dei giocatori; quelle persone sono figlie di uno Stato, delle sue scuole, delle sue piazze, delle sue strade. Prendere a sprangate le società di calcio perché i propri tifosi sono incivili è una forma parossistica di ?scarica barile? da parte delle istituzioni di uno Stato sempre più assente in sempre più luoghi.
E tra l’incudine di una dilagante e insopportabile inciviltà, e il martello delle istituzioni impotenti e prepotenti sta il calcio e quel che di esso resta. Coi suoi tifosi, quelli veri, che ancora ingenui ed indefessi aspettano con trepidazione il fischio di inizio di ogni partita, i gol dei propri beniamini, la gioia di un sogno fanciullesco, calpestato sì, ma mai spentosi del tutto. È a loro che il calcio parla ancora la lingua dello sport, è grazie al loro se il calcio, quello vero, ancora oggi vive, ancora oggi regala novanta minuti di pura, decadente emozione.