21 Marzo 2015
FOCUS – Caccia al leader (che non c’è)
Il calcio non è uno sport per individualisti: si basa sulla forza di un collettivo, dove il singolo è soltanto un ingranaggio all’interno di un macchinario bisognoso del lavoro di ogni singola parte per funzionare quantomeno dignitosamente. Dietro diagonali difensive, calci piazzati e marcature asfissianti esiste però un universo a parte, dove soltanto alcuni tra i singoli ingranaggi prendono vita e separandosi dal resto del meccanismo divengono guide per il resto del collettivo. Questo fenomeno riesce ad andare oltre oltre i limiti del calcio giocato: nasce così la figura del leader, il primo a metterci la faccia e l’ultimo ad abbandonare la nave, che sia bufera o che sia quiete perenne.
In principio fu il clan dell’asado. Un soprannome che chi scrive ha sempre ritenuto di cattivo gusto: clan è un termine quotidianamente usato per chi vuole far gruppo in maniera elitaria, escludendo chi, a detta dello stesso branco, non rispecchia determinati parametri. Il clan dell’asado, o più propriamente degli argentini, riusciva invece a trasmettere qualcosa al collettivo, quasi fosse composto da profeti tra la gente. Nessun rimpianto, anzi, non è assolutamente questo l’argomento di cui vogliamo parlare oggi. Il ciclo degli argentini è giunto a termine come è giusto che sia, ed alla ( poca ) luce dell’opaca stagione 2014-2015 è tempo di tirare qualche somma anche sotto l’aspetto “leadership” di casa Inter.
Nella nostra caccia al leader è opportuno partire da una dovuta premessa: leader si nasce o si diventa ? Ragionandoci un attimo, un’ipotesi non esclude l’altra, diciamo che leader si nasce ma non è scontato esserlo in ogni contesto e di fronte ad ogni tipo di pressione. Il calcio in quanto sport genera emozioni in quantità industriale, emozioni che volenti o nolenti gravano poi sui capi dei singoli attori di questo meraviglioso spettacolo e che in senso negativo non possono avere il sopravvento su chi di un gruppo prova ad essere la guida. “Fà parte del mestiere “diranno i più superficiali, ma non è così scontato: anche ai più grandi professionisti tremano le gambe dinanzi ad una coppa o più realisticamente dinanzi ad una platea esigente come quella nerazzurra, palato fine del calcio nazionale e non, capace di rimandare in cucina piatti valutati da altre bocche esperte come portate di lusso. Essere leader in casa Inter richiede una medaglia in più sulla giacca: servono caparbietà, determinazione, esperienza ed una predisposizione alla resistenza tale da tirare fuori dalle acque più torbide sia se stessi che i compagni. Ci hanno provato in tanti, a partire da Capitan Ranocchia, ragazzo umanamente impeccabile ma forse “troppo buono” per prendere le redini di una squadra improvvisamente precipitata negli inferi dopo i fasti di nemmeno cinque anni fa. Ad Andrea la volontà non manca: prova a caricare l’ambiente, anche con dichiarazioni ( VEDI QUI )e tweet da sergente americano dinanzi ai giovani cadetti, ma più per indole che per mancanza di volontà non pare la figura adatta a prendere il resto del collettivo per mano. Nel giro di pochi mesi, anche a dispetto dell’età, è lentamente emersa quasi a sorpresa la figura di Juan Jesus, duro in campo e determinato fuori, che proprio come il compagno di reparto ha provato più volte a mettere la faccia in situazioni particolarmente spigolose, provando a fomentare il popolo nerazzurro ed il gruppo con dichiarazioni al vetriolo ( VEDI QUI ). Se qui la personalità non manca, a latitare è probabilmente il reale beneficio a lungo termine apportato da queste entrate a gambe tese: una delle doti principali di un leader è quella di urlare senza fare troppo rumore, di trasmettere concetti forti senza sbattere i pugni sul tavolo. Chi invece ha provato a guidare la squadra più in campo che fuori è Fredy Guarin, non il calciatore più costante dell’universo, ma senza dubbio uno dei pochi a mettere qualcosa in più in termini di determinazione ed agonismo. Emblematiche le ultime battute di Inter-Fiorentina, dove dopo 95 minuti di grande sacrificio ha provato a buttare giù da solo l’intero muro viola, a caccia di quello che probabilmente era uno degli ultimi treni utili per l’Europa. Il Guaro è però paradossalmente un ultra emotivo: la sua arcinota incostanza che gli ha compromesso il definitivo salto di qualità, nonostante doti tecniche ed atletiche indiscusse, è emersa soprattutto quando l’ambiente non ha riposto in lui la fiducia necessaria per sentirsi al centro di un progetto. L’arrivo di Mancini in questo senso risulta più che decisivo: Fredy ha ripreso sicurezza nei propri mezzi ( aiutato anche da quello che ha più volte dichiarato il “proprio ruolo preferito” ) ma non pare ancora in grado di dare quella scossa in più necessaria a scaldare l’intero team, che riesce ad appoggiarsi a lui in campo ma non ancora fuori. Passando al fronte offensivo spostiamo l’attenzione su un nuovo arrivato dal curriculum d’oro: Lukas Podolski. L’attitudine da leader di cui parlavamo sopra può spesso prendere vita direttamente dal background del professionista: spesso nel calcio l’equazione trofei vinti = leadership risulta vincente, partendo dall’ovvio principio che le mille battaglie a certi livelli possano lasciare qualcosa a livello umano facilmente trasmissibile al resto del gruppo. In casa Inter tutto ciò è risultato, almeno nel caso del neo Campione del Mondo, al momento totalmente infondato. Non basta alzare il più prestigioso tra i trofei in circolazione per domare San Siro e trascinare una squadra in difficoltà, serve infatti un ulteriore step: abbandonarsi al mondo Inter, capire cos’è e cosa comporta vestire quella maglia fatta di piombo, soprattutto a livello di pretese: se già vestire la maglia nerazzurra è difficile, vestirla da Campione del Mondo in carica lo è ancor di più. Inutile continuare la caccia al leader di questa Inter, perché probabilmente l’Inter un vero e proprio leader non ce l’ha. Pur sforzandoci, nessun elemento nonostante tanti candidati più o meno validi, pare pronto a trascinare il resto del gruppo in questa perenne e sempre più ripida salita. Non ci resta dunque che aggrapparci al futuro ( ed al mercato ) con un occhio sul passato, sperando di riportare a San Siro giocatori in grado di dare qualcosa in più sotto ogni aspetto, giocatori unici per una squadra nel bene e nel male unica nel proprio genere. di Giuseppe Chiaramonte