FOCUS – Il vero e unico predestinato: l’immenso Javier
Tutti parlano di lui come fosse una persona straordinaria, uno di quelli da clonare, uno di quelli che il tempo non dovrebbe mai toglierti la possibilità di ammirare; oggi Lady Moratti l’ha definito “un ragazzino e al tempo stesso una persona di sani principi, che non si è corrotta mai nel corpo e nello spirito”: insomma per tutte le generazioni, soprattutto per i più giovani, un modello da imitare. Per lui potrebbero benissimo parlare il numero di presenze in campo (più di mille in totale, 769 con l’Inter) e i trofei portati a casa, ma non basta mai: quando si parla di Javier Adelmar Zanetti buttiamo via tutte le carte, lanciamo lontano il cappello e chiniamo il capo per un momento. Quando lo rialzeremo avremo un’espressione diversa, tipica di chi non ha più parole. Questo è il capitano, un uomo che ci lascia senza parole. Proveremo a trovarle noi.
DA DOCK SUD CON FURORE – Javier Zanetti nasce la notte di San Lorenzo, quella delle stelle, manco a dirlo. Lo fa al Dock Sud, una frazione di uno dei quartieri più importanti di Buenos Aires, Avellaneda. Siamo in una zona portuale, di quelle dove è difficile trovare smoking e cravatte e in cui di certo gli insegnamenti su ciò che si deve o non si deve fare è più facile riceverli dalla strada che da buoni precettori. Ma mamma Violeta e un modesto padre muratore fanno scudo sul mondo, allevando il loro figliolo all’insegna dell’umiltà, del lavoro e del sacrificio. Nel vedere il babbo stanco tornare da lavoro dopo una giornata difficile, nell’Argentina della Guerra Sporca e dei voli della morte, il buon Javier non può rimanere insensibile. Anche in una situazione così si può cavar fuori qualcosa di buono: se si vuole, vivere serenamente è possibile.
VERSO LA LEGGENDA – A volte basta volerlo. Il giovane Javier riesce a intraprendere la via del pallone, un sogno più che una strada. Erano gli anni di Maradona, del titolo mondiale, del gol all’Inghilterra, e un tredicenne argentino può solo sognare di ripetere quelle gesta. Ma il ragazzo di Dock Sud non ha dei piedi estremamente raffinati, non riuscirebbe mai a calibrare un lancio di 40 metri, nè a segnare un gol su punizione. Ecco perché tutto diventa più difficile. Ma fortunatamente il gioco del calcio sta cambiando, perché si basa maggiormente su corsa e movimenti e non più sul velluto. Ed ecco che Zanetti fa coincidere le sue caratteristiche con il coltivare di un sogno: d’altra parte basta volerlo. Dapprima l’esordio nel Talleres nel 1991 (una stagione in prima squadra), poi tre anni al Banfield e infine l’Inter, da perfetto sconosciuto. Ma d’ora in poi è solo grande storia, e la conosciamo tutti.
STATUA – Di questa storia ci interessa specificare solo che, quando sbarca a Milano nel 1995, Javier è in compagnia di un giocatore di cui si dice un gran bene: Sebastian Pascual Rambert, ex attaccante dell’Independiente, a detta di tutti un predestinato. Il futuro numero 4 nerazzurro invece è accolto con freddezza, quasi diffidenza: in fondo dal neo-presidente Moratti ci si aspetta qualcosa di più. Ma mentre l’Avioncito (così era soprannominato Rambert) finisce nel dimenticatoio, dopo sedici anni tutti costruiremmo volentieri statue ovunque per il patron e il suo primo acquisto. Già, perché non conta se questo baldo giovincello dai capelli immobili ha battuto il record di presenze di Bergomi, non conta solo che è stato il primo interista dopo oltre quarant’anni a sollevare al cielo la Coppa dalle grandi orecchie; la cosa più importante è che Javier Adelmar Zanetti da Dock Sud sia diventato il simbolo dell’interismo.
INTERISMO – L’interismo è il soffrire in silenzio per poi capire che l’unica soluzione è andare avanti; è l’atteggiamento di chi per anni ha dovuto scontrarsi con muri invalicabili, sognando un giorno di diventare egli stesso parte di un muro; è il portare la croce quando nessuno ha spalle tanto forti da caricarsela addosso; è il piangere sia lacrime amare che di gioia. Negli anni della sofferenza Javier è stato tutto questo. Negli anni delle vittorie lo è stato allo stesso modo. Ecco perché il traguardo specifico passa in secondo piano quando pensi a chi lo ha raggiunto, ecco perché non è importante vincere cinque scudetti anziché sei. Quasi nessuno, fra vent’anni si ricorderà precisamente del suo palmares, ma tutti si ricorderanno che di campioni incontrastabili, di goleador, di fuoriclasse, l’Inter ne ha avuti parecchi in questi sedici anni, ma di interisti veri, di “Zanetti” pochissimi. Anzi uno. Quella stella piombata dal cielo sul porto di Dock Sud in un 10 agosto di tanti anni fa.