La Leggenda di Adriano Leite Ribeiro, il gigante dal cuore fragile
La storia dell'incompiuto campione brasiliano che oggi compie 40 anniSono stati tanti nella storia dell’Inter i giocatori che hanno colpito l’immaginario collettivo dei tifosi. Autentici fenomeni indelebili nella memoria, eterne promesse mai sbocciate o campioni al posto sbagliato al momento sbagliato. Su tutti questi grandi e pesantissimi “SE” che albergano nei cuori nerazzurri però, regna però un unico nome: Adriano Leite Ribeiro, L’Imperatore di San Siro. Eppure, come tutte le grandi storie d’amore, anche quando sono rapide ed effimere sono in grado di lasciare qualcosa di unico. Ecco perciò la leggenda di Adriano, una favola tanto vera da finire come nessuno avrebbe voluto.
Adriano nasce a Rio de Janeiro il 17 febbraio 1982. Vive e cresce in una favela, insieme al padre Almir, a cui è legatissimo. Crescere lì non è facile: da bambino, a 8 anni, vede il padre beccarsi una pallottola vagante in testa ed uscirne miracolosamente ancora vivo. Adriano da ragazzino cresce subito molto più dei compagni, diventa alto e forte. Ha un sinistro che fa paura, qualcosa di spropositato per i campi giovanili in cui inizia da terzino, mentre la nonna lo aspetta a bordo campo con i suoi amati pop corn.
Il giovane brasiliano non è ancora L’Imperatore, è solo un adolescente che sogna di sfuggire alla miseria e di aiutare la propria famiglia con il calcio, l’unica via di fuga praticabile da certi ambienti. Viene notato dal Flamengo che capisce però di non poterlo trasformare nel nuovo Roberto Carlos. Il tiro c’è, ma il resto per il ruolo è rivedibile: non sa proprio difendere. Viene perciò spostato nel ruolo di attaccante e qui Adriano inizia ad esprimersi ad alti livelli. Al primo anno da titolare in prima squadra, a soli 18 anni, segna già 10 goal. Il club decide, visto che dal punto di vista fisico è già straordinario, di sgrezzarlo dal punto di vista tecnico. Mai scelta fu più azzeccata. Adriano diventa un leggiadro funambolo, una versione in scala maggiorata di Ronaldo, in grado di danzare sul pallone ma con in dotazione anche un sinistro al fulmicotone.
L’Inter lo nota e decide di portarlo a Milano: giocatori così nascono una volta ogni qualche decennio. E non sbagliano. Prima di lui non si era mai visto, nemmeno mai immaginato, nulla di simile. Movenze e dribbling da piccolo “10” su quel corpo da Marcantonio. Un sinistro magico, capace di tocchi fatati, di carezze dolcissime così come di bordate allucinanti. Quel piedone alla Bud Spencer era capace al tempo stesso di suonare una dolce sinfonia e di scatenare un uragano incontenibile. Senza mezze misure, senza compromessi. Ecco cos’era il primo Adriano. Il prototipo del giocatore perfetto. Tuttavia, purtroppo, come tutti i prototipi, aveva qualche difetto. Perché se è vero che l’impianto “hardware” era da oscar, il “software” di gestione era discretamente bizzoso. Anzi, parecchio bizzoso.
Il futuro Imperatore si presenta in maniera discreta alla prima uscita con l’Inter: amichevole al Bernabeu contro il Real Madrid, punizione terrificante a 178 km orari (no, non è una cifra sparata a casaccio) all’ultimo secondo, traversa goal. Un inizio folgorante… e per favore qualcuno vada a sincerarsi delle condizioni di quella povera traversa! A San Siro l’esordio non è diverso: goal decisivo contro il Venezia in uscita dalla panchina con un altro mancino violentissimo. La strada sembra tracciata: maturare piano piano dietro ai vari Ronaldo, Vieri, Recoba e Kallon, sfruttando le poche occasioni di vedere il campo. Cuper tuttavia non ne sembra eccessivamente entusiasta e viene mandato in prestito alla Fiorentina, dove inizia a giocare e segnare con continuità.
Nel 2003 viene girato al Parma, dove inizia veramente a fare paura, in tandem con Adrian Mutu, altro ex nerazzurro. Torna all’Inter da conquistatore, diventa a tutti gli effetti L’Imperatore, l’idolo del Meazza. Le sue progressioni sono incontenibili, i suoi tiri imparabili. Tutto sembra apparecchiato per la venuta di un nuovo Messia del calcio, tanto che, con un Adriano così, nessuno sembra strapparsi i capelli per la cessione di Ronaldo. Ormai è talmente grande che si carica sulle spalle il Brasile e lo trascina alla vittoria della Copa America da protagonista assoluto. Si sente invincibile e diventa padre, tutto sembra girare per il verso giusto.
Ma quando le porte del paradiso sembrano spalancarsi però, ecco che tutto inizia ad andare a rotoli. Nell’agosto del 2004, l’amatissimo padre, Almir, muore all’improvviso, pare per complicazioni dovute al proiettile rimasto conficcatogli tanti anni nel cranio. È una botta devastante alla psiche dell’attaccante brasiliano, da sempre un ragazzo molto sensibile. Perdere il padre ed in un amen diventarlo tu stesso non deve essere mai facile, figuriamoci per quel ragazzone che stava cominciando a prendersi le sue prime rivincite dopo una vita di privazioni.
Il suo rendimento non cala immediatamente, nel 2004/2005, pur con qualche sporadico picco negativo, rimane incontenibile come sempre, entrando nella storia della Serie A con la terrificante traversa (che ancora trema) presa da 35 metri contro il Palermo e per la fenomenale galoppata contro l’Udinese in cui fa secchi 4 avversari lungo 60 metri di campo. Sembra che poco sia cambiato nei primi mesi dopo la morte del padre… ma il demone si agita già dentro di lui e come un tarlo divora la sua testa.
Iniziano a circolare sempre più voci e immagini di notti brave, a base di alcool e donne di “facili costumi”. Il crollo è verticale. Perde la testa in Champions League a fa a pugni con Caneira del Valencia, non si presenta agli allenamenti o spesso si presenta alla Pinetina ubriaco o in ritardo. Il suo fisico perfetto inizia ad arrotondarsi, a diventare meno tonico. Moratti lo difende e lo coccola, sperando di poterlo recuperare. Mancini però non approva ed i rapporti iniziano a farsi sempre più tesi. Viene spedito in Brasile, al San Paolo e, pur cominciando di nuovo a segnare con regolarità, la sua vita privata peggiora ulteriormente una volta tornato in patria.
Una volta partito Mancini, Moratti lo riaccoglie, speranzoso che Mourinho possa raddrizzare quel campione naufragato, ormai lo spettro di quello che era un tempo. E, dopo un girone di andata piuttosto sottotono, la ruota sembra tornare a girare. Sembra soltanto però, purtroppo. Tutti infatti quando pensano ad Adriano pensano a quella sgroppata da sogno contro l‘Udinese o alla magica punizione al Bernabeu. Tuttavia il vero spartiacque della sua carriera fu un altro. Nella stagione 2008/2009 l’Inter di Mou cercava una svolta europea che sarebbe arrivata solamente la stagione successiva.
All’Old Trafford, sotto di un goal contro i Red Devils di Cristiano Ronaldo e Rooney, i nerazzurri cercano disperatamente una rete per la qualificazione, dopo lo 0 a 0 dell’andata. In campo, oltre a Ibrahimovic, c’è quel colosso brasiliano che, nonostante le bizze e la discontinuità, è comunque impossibile non amare. Sotto la guida del portoghese poi, sembra addirittura sul punto di rinascere. Da qualche settimana, nonostante il peso in eccesso, è tornato ad inanellare goal e giocate spettacolari, con anche la rete decisiva nel derby all’attivo. Tutti si aspettano molto da quel duo delle meraviglie li davanti.
E la palla buona arriva, a metà secondo tempo. Cross da lontano di Ibra per l’imperatore. Il lancio non è dei più semplici da gestire, la palla arriva quasi in verticale e il brasiliano è sbilanciato e marcato molto stretto da Vidic. Sarebbe per chiunque quasi impossibile coordinarsi con precisione. Adriano però non è uno qualunque. Ci prova lo stesso, l’Inter ha bisogno di lui. Si inventa una mezza rovesciata con un gesto tecnico meraviglioso e… palo pieno. Palo. Milioni di attese, speranze e urla strozzate in gola.
Lo specchio perfetto della sua carriera, della sua vita: un eterno fiato sospeso che non viene mai davvero liberato. L’Inter deve rimandare ancora l’appuntamento con la Champions. L’Imperatore invece rimanda definitivamente l’appuntamento con la propria carriera. Chissà come sarebbe potuta andare se quella palla maledetta fosse entrata. Quella è la vera sliding doors della sua carriera. Quanto cose sarebbero potute cambiare nella sua testa con quell’impresa da appuntare sul petto… Il cuore, più che a tutti, si spezza proprio a lui. Voleva quel goal, ci credeva tanto. Da lì vagherà in campo con lo sguardo vuoto e perso, intrappolato a rivivere per tutta la serata quell’occasione mancata. Ma si sa, se la dea della fortuna è bendata, quella della scalogna di vede invece benissimo. E con alcuni prende addirittura la mira.
Quella fu la fine della favola del conquistatore arrivato dal Brasile. Fu la mazzata decisiva per il suo fragilissimo equilibrio, il colpo di grazia alla sua redenzione. La sua carriera cominciò la parabola discendente che lo portò lontano dai colori nerazzurri. L’Imperatore raccolse i cocci della sua vita e se ne andò, cercando fortuna ancora in Brasile e a Roma. Ingrassa sempre di più, si deprime, beve e ricomincia, in un loop che lo porta al fallimento definitivo.
Adriano è, e probabilmente resterà sempre, il più grande rimpianto della storia non solo dell’Inter, ma anche del calcio mondiale. Sarebbe potuto essere qualcosa di leggendario e impareggiabile. Qualcosa di unico e mai visto sui campi da calcio, l’attaccante perfetto, il condottiero che poteva condurre l’Inter e il Brasile sul tetto del mondo per almeno un decennio. Invece, citando Blade Runner: “La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo. E tu hai sempre bruciato la tua candela da due parti”. Di leggendario è rimasto solo il rimpianto di ciò che sarebbe potuto essere. Un “what if” colossale, dovuto solamente alla fragilità mentale di un ragazzo messo di colpo in una situazione troppo pesante per lui. Ora è l’imperatore di quel castello nel cuore di ogni amante del calcio, ricordato con affetto, oltre che rimpianto, nonostante tutto.
Addossargli tutte le colpe però sarebbe ingeneroso. Anche l‘Inter, va detto, ha forse la sua buona parte di difetto. Ci sarebbe probabilmente voluto un polso più forte, qualcuno in grado di fargli capire che non era solo, di afferrarlo e trascinarlo a riva dall’oceano di disperazione in cui aveva iniziato ad affogare. Ma quel che è fatto e fatto e ormai restano solo i ricordi sbiaditi di un’amore breve ma intensissimo.
Niente lieto fine quindi? Forse. Forse questo in fin dei conti era l’unico modo in cui poteva finire. Era troppo forte per essere vero ed il destino ha pensato di mettergli i bastoni tra le ruote. O forse era solo il mondo in cui era finito, quello del calcio moderno, a essere sbagliato per lui. La ribalta improvvisa, le attese spasmodiche, l’ansia ogni momento, le enormi aspettative, erano come una prigione. Non era una vita che faceva al caso suo, così semplice e bonario. Ora, senza pensieri e problemi, sembra finalmente sereno, libero dalle catene che lo avevano rovinato in Europa. Anche senza vincere nessuna guerra, ma solo qualche sporadica battaglia, ha conquistato il cuore di milioni di persone. Campione della gente, questo si che è un titolo da portare con onore.