Parla Materazzi: “Nel 2010 eravamo tutti uniti. I miei migliori amici all’Inter? Chivu e Deki”
L'ex difensore è tornato a parlare dei suoi trascorsi in nerazzurroCoinvolto nell’ambito della presentazione del nuovo programma che sarà in onda sul canale Alpha Campi di Battaglia, Marco Materazzi ha detto la sua relativamente alla possibilità che esista amicizia fuori dal campo tra i membri di una squadra di calcio: “Mi è capitato di tutto, di vincere con delle squadre in cui il clima in spogliatoio era sereno e rilassato così come in un ambiente in cui si litigava un giorno sì e l’altro pure. Fare il calciatore, da questo punto di vista, non è diverso da qualunque altro lavoro, credo: in una rosa ci sono trenta giocatori, è un po’ impossibile essere amico di tutti. Puoi legare davvero con tre, quattro, cinque persone, stop. Chi dice cose diverse, secondo me, mente. Nel 2006, ai Mondiali, eravamo tutti amici anche perché eravamo tutti italiani, è un po’ un caso a parte. Poi, in realtà, all’Inter i miei migliori amici erano Stanković e Chivu, che sono due stranieri quindi, anche lì, cambia tutto a seconda del contesto. Nel 2010 però posso dire che eravamo tutti abbastanza amici”.
L’ex difensore ha parlato anche dell’esperienza inglese con l’Everton, fatta nella stagione 1998/1999, che gli è rimasta nel cuore e, in un universo parallelo, avrebbe continuato fino a fine carriera: “Quello inglese è un calcio bellissimo, per qualità tecniche, intensità… Mi piace moltissimo, lì veramente bisogna dare tutto quel che si ha per 90 minuti. Forse ci sono arrivato troppo presto, se ci fossi andato più tardi, nella mia carriera, probabilmente sarei anche rimasto lì ma quando ero a Liverpool avevo un figlio di sei mesi e l’adattamento non è stato semplice, anche perché a Perugia stavo tanto bene e mia moglie è perugina. Tra l’altro, in quelle zone lì non è che parlino proprio l’inglese dei libri che si fa a scuola, eh… Anche a Milano non capisco un tubo del dialetto ma almeno posso parlare italiano. Lì no. Quindi sono tornato in Italia, anche perché sognavo la Nazionale e allora non c’era l’apertura mentale di oggi: se giocavi oltre confine non esistevi, punto”.
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