Tante cose possono accadere in 15 anni. Si cresce, si vive. Si gioisce e si soffre. Manco te ne rendi conto e in un attimo ti passano davanti gli anni migliori e peggiori. Quello che però non può accadere, che gli anni siano 15-20 o 50, è di dimenticare i retti, i buoni, gli eroi. Le persone che hanno lasciato un’impronta pura del loro passaggio. Come l’immenso Giacinto Facchetti.
Sarebbe troppo scontato e riduttivo parlare solo del Facchetti calciatore. Primo terzino fluidificante della storia, con all’attivo 75 reti (da terzino negli anni 60… non so se mi spiego) in 634 partite, ha contribuito in maniera fondamentale all’Inter più vincente e conosciuta della storia: La Grande Inter. 4 Scudetti, 1 Coppa Italia, 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Intercontinentali ed un europeo con la nazionale italiana non bastano per descrivere cosa fosse realmente Giacinto Facchetti.
Oggi sono 15 anni dalla prematura scomparsa del “Cipe”. E nonostante la dolorosa ricorrenza, oggi è più bello del solito essere interisti. Perché mentre il pensiero indugia su Giacinto, mentre l’occhio diventa umido e la lacrima che si cerca di nascondere lascia l’impronta salata sulla guancia, è impossibile non sentire anche il cuore gonfiarsi d’orgoglio. Perché se è vero che il tempo passato con Facchetti, non solo per la famiglia nerazzurra, ma anche e soprattutto per le persone che gli stavano più vicine, è stato troppo breve, mai come in questo caso bisogna considerarsi fortunati. Fortunati di aver avuto come simbolo, come capitano, come faro, un giocatore e soprattutto un uomo tanto straordinario. Fiero, limpido, corretto, leale. Puro. Mai come oggi, le sue parole sono oro: “Ci sono giorni in cui essere Interista è facile, altri in cui è doveroso e giorni in cui esserlo è un onore”. Oggi, come in quel maledetto 4 settembre del 2006, non è facile. Ma sicuramente è un onore.
Facchetti è sempre stato il centro di gravità dell’Inter, una costante tatuata indelebile nei colori nerazzurri. Così come loro erano tatuati dentro di lui. Un signore nel vero senso della parola. Un gigante buono, votato da sempre e per sempre “alla cosa giusta”. Alla retta via. In un calcio pieno di finte bandiere volta faccia, dominato dal dio denaro e dalla vanagloria, Giacinto sarebbe oro, un appiglio a cui aggrapparsi e su cui fare affidamento. Il destino ce lo ha strappato troppo presto, innalzandolo al mito.
Così lo descriveva il suo carissimo amico, Massimo Moratti, nella toccante lettera d’addio:
“Caro Cipe, non sono riuscito a dirti quello che volevo, per paura di farti capire che il tempo era inesorabile e la malattia terribile. Scusami, ma credo che ti debba ringraziare soprattutto per la pazienza che hai sempre avuto con me. Per i tuoi occhi che sorridevano, fino alla fine, ai miei entusiasmi o all’ironia con cui cercavo di superare insieme a te momenti difficili”.
“Pochi giorni fa, pochissimi, mi parlavi dell’Inter con un filo di voce e con l’espressione di chi ti vuole bene, proiettando il tuo pensiero in un futuro che andava oltre le nostre povere, ignoranti, possibilità umane. Qualche mese fa ti chiedevo un po’ scherzando un po’ sul serio come mai non riuscivamo ad avere un arbitro amico, tanto da sentirci almeno una volta protetti. E tu, con uno sguardo fra il dolce e il severo, mi rispondesti che questa cosa non potevo chiedertela, non ne eri capace”.
“Fantastico. Non ne era capace la tua grande dignità, non ne era capace la tua naturale onestà, la sportività intatta dal primo giorno che entrasti nell’Inter, con Herrera che ti chiamò Cipelletti, sbagliandosi, e da allora, tutti noi ti chiamiamo Cipe. Dolce, intelligente, coraggioso, riservato, lontano da ogni reazione volgare. Grazie ancora di aver onorato l’Inter, e con lei tutti noi”
Grazie Giacinto, Grazie Cipe. Grazie di esserci stato. Ora sei una stella.
Le ultime sulle scelte dei due allenatori
Il pagellone del centrocampo nerazzurro
Il centrale via a fine stagione
Il calciatore prova a strappare un contratto importante
Tutte le occasioni di mercato dell'estate 2025
Il nostro ultimo approfondimento