22 maggio 2010, esattamente dieci anni fa l’Inter viveva la notte più importante della sua storia calcistica. Battendo il Bayern Monaco, infatti, i nerazzurri salivano sul trono europeo vincendo la Champions League e coronando il leggendario Triplete. Intervistato da Passioneinter.com, Ciccio Valenti ha ricordato quella memorabile giornata.
Anno del Triplete, probabilmente la stagione più bella per ogni tifoso interista. Qual è la prima cosa che le viene in mente pensando a quel campionato?
“Io mi considero un folle, perché subito dopo i sorteggi degli ottavi chiamai il mio amico Simone Cannata, regista di Mediaset e gli dissi che avremmo battuto il Chelsea e che avremmo vinto la Champions. Con la trouppe seguimmo ogni partita, fu anche un investimento economico importante. Fui assolutamente incosciente perché presi già i biglietti per Madrid: chiesi aiuto al vice-direttore del club, che però bonariamente non volle aiutarmi, soprattutto per una questione di scaramanzia”.
Lei ha visto la partita a Madrid. Cosa ricorda del momento del fischio finale?
“Ci sono delle immagini andate in mondo visione, io con le braccia alzate, ricordo che ero felice. A due minuti dalla fine si girò un ragazzo davanti a me piangendo, convinto che alla fine avremmo perso: è il senso dell’interismo, il culto dell’adrenalina e lo scetticismo più assoluto, ma che servono poi per godere in maniera clamorosa”.
Ogni squadra in grado di scrivere la storia ha un lascito che scavalca gli anni. Secondo lei, quando in futuro si parlerà della squadra del Triplete, per cosa verrà ricordata?
“Per l’intelligenza e per essere un gruppo con le p***e. Era una squadra fatta da persone vere, parliamoci chiaro: io a quei calciatori lascerei i miei figli per un week-end con l’obiettivo di fare insegnare qualcosa. Ognuno di loro, con delle caratteristiche differenti, può regalare un insegnamento. Con Mourinho parlerebbe di strategia, con Zanetti di valore, con Eto’o di carisma, di opportunismo con Milito“.
Ripensando a quella squadra, qual è il calciatore che le è rimasto maggiormente nel cuore?
“Ognuno sceglie il calciatore in base alle proprie caratteristiche, ed io dico Maicon per l’esuberanza che l’ha sempre contraddistinto. Poi c’è il carisma di Eto’o, che per fortuna abbiamo scambiato per Ibrahimovic: voleva andar via per la Champions ed invece l’abbiamo vinta noi. Stessa cosa è successa per “coso” lo scorso anno (il riferimento è ad Icardi, ndr), lo dico solo calcisticamente, che aveva bisogno di una squadra per segnare tanti gol, Lukaku gioca per la squadra”.
Riavvolgiamo nuovamente il nastro: c’è stato un momento, durante quell’annata, in cui ha capito che la squadra di Mourinho poteva davvero realizzare qualcosa di grande?
“Io ho nella mente l’immagine dei tifosi all’uscita da Stamford Bridge, erano convinti di avere finalmente una squadra in grado di giocarsela contro chiunque. Le variabili erano tante, con il Barcellona mi si è fermato il cuore al momento del gol annullato ai Blaugrana, però da lì in poi c’è sempre stata una particolare consapevolezza di poter riuscire nell’impresa”.
Parliamo proprio di questa consapevolezza: che sensazioni aveva prima della finale di Madrid?
“Arrivammo là il mercoledì, per i primi giorni in giro per Madrid c’erano solo tifosi tedeschi, i nerazzurri arrivarono nel fine settimana. Ma al sabato, in qualsiasi luogo della città trovavi solo interisti. Tanti erano certi che saremmo tornati a casa con la coppa, ma in realtà poteva accadere di tutto. Dopo la partita con il Bayern montai in macchina di ragazzi bresciani, che saluto ancora, tornai in albergo a dormire. Ero distrutto, c’era tutto in quella gara, il senso di quanto vissuto per tutto l’anno”.
Chiudiamo sull’attualità: come giudica i primi mesi di Conte sulla panchina interista?
“Il campionato deve essere valutato per quanto fatto fino ad ora, Conte mi piace molto, ha dato un’impronta fortissima alla squadra. Pensavo che ci potesse essere un cambio di marcia con l’arrivo Eriksen ed invece nelle partite decisive non è stato schierato. Forse non rientra negli schemi, ma i calciatori forti vanno resi dei perni della squadra: se lui pensa che è un giocatore fondamentale deve trovare in modo di inserirlo. Io me lo ricordo Antonio, sono di Livorno, lui venne qui con il Bari, usava il 4-2-4 e vederlo giocare era impressionante. Secondo me la sua grande voglia di vincere deve essere superiore alla paura di cambiare schema”.
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