L’Intertinente – Il miglio verde di Spalletti: l’annunciato ed ingeneroso epilogo di un paladino dell’Interismo
Una rubrica per rafforzare un concetto: l’impertinenza di essere nerazzurriPiù che il suo da tanto declamato esonero, a destare sgomento è l’irritante pietismo che ha accompagnato l’epurazione di Luciano Spalletti dall’Inter, proprio di coloro i quali ne hanno costantemente preteso a gran voce un allontanamento durante tutta la seconda parte di stagione. Per quanto sia una peculiarità dell’essere italiano quella di oscillare tra il disprezzo e l’adorazione in un amen – talvolta, soprattutto per vile opportunismo -, il passaggio dall’esasperato sdegno per un biennio comunque in linea con i piani societari, al maggioritario commiato riservato all’allenatore toscano possiede tutte le storture per essere bollato a retorica di circostanza.
Infatti, la conta dei farisei che ne invocavano la testa nel quadrimestre appena conclusosi e che ora ne commentano adulatoriamente l’addio, è un oneroso e fastidioso sforzo, che però sottolinea la sfacciataggine dell’ipocrisia e la limitatezza di vedute del vero cancro dell’universo nerazzurro, ossia la frangia dell’interista loggionista e dell’interista internauta. Tant’è che i personalismi e il proselitismo che questi hanno creato – ogni riferimento a Mauro Icardi e al suo folto ventaglio di sostenitori è volutamente non casuale – sono giunti persino a sminuire la portata delle esplicite dichiarazioni di Spalletti sull’importanza della tutela dell’Inter.
Nel post-Mourinho, il tecnico di Certaldo è stato uno dei pochi – insieme al secondo Mancini e parzialmente a Pioli – a riprende la dottrina dell’Interismo e a catechizzare ad essa, ed è stato il solo a reintrodurre la Beneamata nel circuito internazionale, dopo un settennio di astinenza e laddove i suoi 6 predecessori avevano fallito. Spalletti ha compreso la vitalità dell’ambiente neroblu sin dal primo accesso alla Pinetina e dalle prime parole da nuova guida della squadra, sempre mettendoci la faccia e per preservare l’integrità storica della tradizione dell’Internazionale: come quando, nell’estate del 2017 e nel fermento della possibile cessione di Ivan Perisic, il monito de “[…] Non devo convincere nessuno: sono gli altri che devono convincere noi di poter rimanere nell’Inter, […] questo club è il massimo a cui si possa aspirare”, fu già il preludio di un recupero dello spirito di appartenenza affievolitosi negli anni successivi al Triplete.
Poi, la querelle Icardi, seppur indicatrice di un‘oggettiva incapacità di perimetrare le vicende di spogliatoio e di evitarne una fuga, è un saggio sulla rigorosità e sulla determinazione di Spalletti, malgrado abbia anche evidenziato la sua proverbiale ruffianeria – notare bene le scaramucce con la stampa postume ad Inter–Lazio. Onestamente, l’accanimento nei suoi confronti sarà stato pur consentito da un’opinabile gestione tattica e da una confusionaria proposta di gioco, ma non ossequia l’immedesimazione e l’orgoglio mostrati dal fiorentino per suffragare e proteggere l’Inter e il nucleo della sua pienezza: il popolo nerazzurro. Dunque, buona vita, Lucio: che non sia a tinte rossonere, né tantomeno juventine.
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